
I Folkniks appartengono a quella categoria di gruppi che non hanno mai cercato la ribalta in modo aggressivo, e forse proprio per questo sono rimasti impressi nella memoria di chi ama davvero il folk degli anni Sessanta. Non erano un fenomeno di massa né un nome da cartellone gigante; erano, piuttosto, un piccolo gioiello nascosto nel cuore del folk revival, uno di quei progetti che nascono quasi per necessità artistica più che per ambizione commerciale.
Quando si ascolta il loro disco più noto, The Sound of Twelve String Guitar & Banjo, si ha immediatamente la sensazione di entrare in un salotto di altri tempi: due strumenti, una chitarra a dodici corde e un banjo, che si intrecciano con delicatezza e semplicità, creando un paesaggio sonoro limpido, onesto, senza sovrastrutture. È un suono diretto, pulito, che appartiene a un’epoca in cui bastava davvero poco per fare musica: un po’ di talento, un po’ di cuore e strumenti accordati bene.
I Folkniks non volevano stupire: volevano evocare. Le loro interpretazioni di brani celebri del folk dell’epoca — dai pezzi di Dylan a “Greenback Dollar” — non cercavano di reinventare, ma di restituire la verità della melodia, mettendola in primo piano con un rispetto quasi artigianale. La loro forza era tutta lì: nella naturalezza, nella purezza acustica, nella scelta di lasciare che fossero le corde a parlare.
C’è anche una sorta di fascino nel fatto che non sappiamo moltissimo su di loro. Non c’è una storia complessa di separazioni, drammi, reunion o tour infiniti. I Folkniks sembrano esistere soprattutto nella loro musica, come se il gruppo fosse nato, cresciuto e rimasto sospeso nel tempo attraverso quel singolo disco. Un lavoro che oggi, riascoltato, ha il sapore delle cose autentiche e un po’ perdute: la registrazione semplice, le armonie pulite, quel modo di suonare che non tenta di impressionare ma di accompagnare.
Ascoltandoli, sembra quasi di vedere due musicisti seduti uno accanto all’altro, in una stanza di legno, con la luce morbida che entra dalla finestra, suonando senza fretta, lasciando che il ritmo si costruisca da solo. È folk nel senso più puro del termine: complice, intimo, quasi domestico. Ed è forse proprio per questo che i Folkniks sono diventati, negli anni, un riferimento per gli appassionati e i collezionisti del genere.
La loro eredità, più che nei nomi e nelle biografie, è nel suono. Nel modo in cui quelle dodici corde vibrano insieme al banjo, dando vita a un timbro che sembra venire da un’America romantica e senza età. Una piccola fotografia sonora di un momento culturale che non tornerà più, ma che continua a emozionare chiunque abbia voglia di ascoltare davvero.